Cagliari dal principio

“Cagliari non assomiglia a nessun’altra città del mondo. È nuda, sospesa tra la pietra e il mare, tra la storia e il presente.”

 

Di citazioni che provano a descriverla ce ne sono tante e tante ne cercherò sempre, ma una di quelle che si avvicina di più alla Cagliari che ho io negli occhi e in fondo al cuore (ma pure in superficie e nel mezzo e ai lati e ovunque), è questa di Elio Vittorini che la riassume così in un passaggio di Conversazione in Sicilia del 1941.
Il protagonista del romanzo, Silvestro, lascia Milano spinto da un senso di smarrimento esistenziale e dal desiderio di riconnettersi con le sue radici e torna nella sua natale Sicilia.
Durante il viaggio, il treno passa attraverso diverse località e Cagliari viene menzionata (in modo simbolico e non secondo la logica geografica) come una delle tappe.

Quando ho ricercato l’origine di questa citazione e sono arrivata a conoscenza di Silvestro mentre ero io stessa su un treno, ho sorriso di fronte a come l’universo unisca sempre i puntini in modo davvero creativo.

Silvestro che torna in Sicilia per ritrovare le sue radici, Eleonora che torna a Cagliari per ritrovare se stessa e scoprire di avere lì le sue.
C’è del creativo anche nel fatto che io quel weekend di gennaio non l’avrei dovuto passare lì.
I piani originali prevedevano un’Ogliastra di trekking e avventura con un amico che all’ultimo si è ammalato e io sono rimasta lì appesa al “cosa fare? Partire lo stesso per un paio di giorni restando in città o cancellare tutto?”
Alle 6.20 di una mattina buia e troppo fredda per i miei gusti, mentre andavo a lavoro, mi ha risposto una canzone alla radio:

Forse è questo temporale
Che mi porta da te
E lo so non dovrei farmi trovare
Senza un ombrello anche se
Ho capito che
Per quanto io fugga
Torno sempre a te
Che fai rumore qui
E non lo so se mi fa bene
Se il tuo rumore mi conviene
Ma fai rumore, sì.

Faceva rumore eccome quel biglietto aereo.
Ed era il rumore che rispondeva alla mia necessità di evoluzione in quel pezzo di timeline della vita.

 

Ero già stata a Cagliari un paio di volte (non) vivendola come tappa di passaggio, come punto d’appoggio strategico durante un paio di itinerari estivi per spostarsi con comodità nelle spiagge della costa sud.
Rieccola la creatività dell’Universo: la prima volta che ci ero stata.. a me Cagliari non era piaciuta.

Non l’avevo trovata niente di che.
Mi sembrava una città abbastanza carina ma come tante altre, ma trasandata, ma offuscata da troppe bombolette sui muri, ma con troppi cantieri, ma con troppi bei palazzi trascurati, ma con troppo traffico mal gestito.
Ma con una ruota panoramica sul lungomare nel tentativo di abbellire il tutto in modo alquanto superficiale e turistico.
Fa molto ridere che questo ora mi suoni come una bestemmia impronunciabile.
E come il solo pensiero mi stimoli l’impulso di cercare un volo con la data di oggi da tanta è la nostalgia perenne di tutto quello che poi Cagliari è diventata per me.

Ho avuto bisogno di tornarci e di farlo da sola per più volte e durante un periodo complicato, per capire quanto questa città fosse.
Non manca nessuna parola: quanto fosse.
Ho avuto bisogno di conoscerla con la pioggia,
con il maestrale che non ti fa chiudere le portiere, con le albe fredde e le giornate corte di gennaio.
Ho avuto bisogno di distruggermi le gambe per scoprirne più angoli possibili, di fare la spesa al mercato come vivessi lì.
Ho avuto bisogno di fermarmi nelle botteghe a parlare con le persone, di conoscerne altre seduta a cena ad un tavolo apparecchiato per una.
Ho avuto bisogno di capire che all’inizio l’avevo rifiutata perché era me che rifiutavo.

 

Forse è diventata così Casa perché è così me:
sfuggente, piena di salite e gradini, a giorni ventosa da far solletico e altri ventosa da irritare, a giorni tiepida da riscaldare, altri afosa da opprimere.
Leggera come i panni stesi ad asciugare alle sue finestre ma salda come le radici dei suoi ficus.
Piena di storie da raccontare ma con la voce che le sussurra solo a chi ha le orecchie attaccate al cuore.

Un mese concentrato in un weekend

Quanta vita possa entrare in spazi temporali ridotti, me l’ha insegnato quel primo weekend cagliaritano in solitaria.
Un weekend che è sembrato durare, per contenuti e impatto emotivo, almeno un mese.

 

Quel 20 gennaio sono atterrata presto, ho preso il treno verso il centro e l’ho trovato bagnato dalla pioggia della notte e ancora un po’ addormentato.
La giornata avanzava promesse di asciutto di fronte alle quali mi è sembrato un dovere la colazione in uno dei Caffè più antichi della città: “una pardula e un cappuccino, per favore” e cosa se no?

 

Con la calma di chi per la prima volta non ha nessun piano da seguire, ho iniziato il viaggio fotografando vetrine piene di pagnotte, quelle bellissime e ben fatte che vorrei sempre trovare ovunque, e facciate di palazzi in tinte pastello.
Il quartiere Marina me lo stava sussurrando pianissimo che in quella città poteva esserci tutto un mio mondo.

 

Ho passato un’ora dentro una bottega di ceramica “sfogliando mattonelle” dipinte da mani provenienti dal mondo e mi son lasciata raccontare del festival che lo rende possibile.
Ne ho acquistate tre immaginandole incastonate in qualche parete della casa che arredo nella mia testa ogni volta che penso a dove vorrei vivere.

 

Mentre io ero chiusa in un laboratorio tra arte, racconti e polvere di argilla, fuori si era alzato un maestrale che un momento dopo mi faceva faticare per riuscire a chiudere la portiera della macchina di Chiara, un’anima bella conosciuta online, che mi ha fatto un regalo grande come tutte le paure che erano partite insieme a me quel weekend: il pranzo al mare.
A Cagliari “pranzo al mare” significa solo una cosa: spaghetti arselle e bottarga al Poetto.
Che a loro volta han significato anche un saluto da vicino ai fenicotteri tornando verso il centro.
Con quel vento, loro e pochi altri resistevano all’aperto, io ho preferito non resistere alla tentazione di rifugiarmi dentro ad un’installazione su Van Gogh che con i suoi vortici di blu e gialli ha dato una botta anche al vortice della mia fame.

 

Quella sera, per la prima volta nella mia vita, ho preso l’iPhone e ho prenotato un tavolo per uno al ristorante.
Ho cenato raccontando pezzettini di me al cameriere -ogni volta che ci ripenso mi chiedo se si ricordi ancora di me-, sentendomi un po’ a Parigi e un po’ in nessun posto del mondo.

 

Tra albe inzuppate di rosa invernali, avanscoperte su e giù per il promontorio della Sella, necropoli punico-romane, cripte sotterranee, passaggi gastronomici obbligati dalla mia fame di territorio.
Tra le mezzore seduta a fissare la bellezza disinvolta del mare d’inverno, tra le mani e le labbra rosse per il vento freddo, tra le mie domande che improvvisamente non sembravano necessitare più di una riposta.
Tra la conoscenza di persone che hanno riempito le più diverse circostanze e l’inizio della conoscenza di una città che iniziava a riempire me.
Son passati quei 3 giorni durati una microvita dentro la mia vita.

 

Quel 20 gennaio ero partita da sola ma quanto ero stata davvero sola?
Quel 20 gennaio ero partita per una sola città ma quante altre ne avevo scoperte?
Quel 20 gennaio ero partita impaurita dalla solitudine ma quanto l’avevo amata?
Quel 20 gennaio ero partita con tutto di troppo -le angosce le paure le insicurezze le ferite le montagne spigolose dentro i sensi di colpa- e quel 23 gennaio tornavo, contro ogni previsione, senza qualcosa: un pezzo di cuore adottato dal mare e rimasto lì.

 

A Cagliari.
La mia, nuova, Cagliari.

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