SE NON CERCHI, NON TI PERDI
Il pane in Sardegna

Il pane in Sardegna
Sarà che fare il pane e mangiarlo è una delle mie attività preferite per rigenerare l’anima,
sarà che il macro gruppo è sempre quello del buono e quindi potrebbe bastare questo, sarà che è un universo di combinazioni infinite e che mi annoi risulta difficilissimo.
Sarà tutto questo o sarà che, semplicemente, la panificazione sarda mi affascina e basta, come mi affascinano l’impressionismo francese e le librerie dell’usato.
È qualcosa di così profondamente radicato nella storia della Sardegna, un vero e proprio rituale sacro, un patrimonio che si eredita e si tramanda.
Le prime tracce documentate da resti di macine e strumenti per la molitura dei cereali risalgono al Neolitico, quando la cultura agro-pastorale si diffuse sull’isola.
Durante l’età del Bronzo i Nuragici producevano pani cerimoniali ma se non vogliamo allontanarci troppo, anche l’Ottocento ha qualcosa da dirci.
Nel 1828 William Henry Smith in “Sketch of the present state of the Island of Sardinia”, dopo aver visitato l’isola, scrive:
“(…). La sporca usanza di far lievitare la pasta mettendola nel letto ancora caldo dove ha dormito la famiglia è assai comune nei villaggi del Meilogu ed in altri luoghi”.
Trovo così interessanti le descrizioni lontane! Indispensabili ad avvicinarsi alla comprensione dei cambiamenti avvenuti nel tempo.
E le accezioni che ci arrivano come negative –sporca usanza– ma che in realtà sono solo descrittive di una condizione prima e di un’evoluzione poi, di un processo di creazione, di una pura necessità -quella di ottenere il pane di cui cibarsi e ottenerlo secondo iter precisi.
Se è vero che il pane si fa dappertutto, è vero anche che la panificazione sull’isola colleziona elementi unici.
La Sardegna è la regione del mondo con il più alto numero di pani tipici (da tavola e rituali) e custodisce l’80% del patrimonio panario d’Italia.
In tutti i paesi si preparano numerose tipologie di pane, catalogate negli anni Novanta del secolo scorso, in circa 400 varietà.
Spesso i pani assumono denominazioni d’origine latina, altre volte quelle della lavorazione o degli strumenti utilizzati per la loro preparazione o conservazione.
Su civraxiu, su pistoccu, su coccoi, su zichi ladu, su pane lentu, sa spianata, sa costedda, su pan’e gherda, s’orzatu, su pane buttidu.
E ancora su guttiau, su moddizzosu..
Il pane si differenziava da paese a paese ed anche secondo la posizione sociale: il grano per le classi agiate, mentre il popolo usava orzo in Barbagia, meliga in Campidano e, quando i raccolti erano scarsi, ghiande in Ogliastra.
Il pane e le fate
Vorrei tornare in terza elementare solo per riscrivere il tema sui supereroi e, con una calligrafia che oggi troverei brutta e imprecisa, calcare sul foglio: “le mie supereroine preferite sono le janas”.
O forse le definirei diversamente, perché a loro attribuisco poteri più inimmaginabili rispetto a quelli dei comuni supereroi per definizione.
Una suggestione magica “in ceramica ed ossa” che ho anche sul comodino, del colore del mare e con delle orecchie appuntite.
Le janas sono creature leggendarie della tradizione sarda, spesso associate a elementi naturali e misteriosi.
Sarebbero piccole donne un po’ fate e un po’ streghe, guardiane di grotte e luoghi nascosti.
Tante sono le leggende e le versioni che le riguardano in giro per l’isola, quanto non è difficile trovare tra queste anche una loro associazione proprio all’arte della panificazione.
Non ve le immaginate stupende delle janas che durante la notte si intrufolano nelle cucine delle donne sarde per aiutarle nella preparazione del pane?
Me la spiegherei così la perfezione di tutti quegli intagli, di quelle sembianze di piccole sculture d’alabastro chiare e vellutate.
Arazzi di intrecci, fiori, stelle e nodi che sembrano rubati ai disegni della natura o a quelli dei bambini o al cuore delle fiabe.
Ogni intaglio parla della terra che lo sta generando: spighe, corolle che si schiudono, geometrie di alfabeti non più in uso.
Questi pani li si potrebbe immaginare dimenticati in una cappella romanica, come reliquie di bellezza.
Invece la loro bellezza si completa ed esplode nel morso.
Su framentu, il lievito madre
C’è un’altra cosa che mi fa cavalcare senza sforzi l’onda dell’entusiasmo e della curiosità continua rispetto alla panificazione dell’isola: l’attaccamento al lievito madre.
Che sessant’anni fa in Sardegna non si chiamava nemmeno lievito e probabilmente pochissimi avrebbero compreso l’uso di questa parola in riferimento alla pasta acida.
Che è donna, è madre, è una pasta fertile, la genitrice importantissima che garantisce produzione e riproduzione di pane e dunque di vita.
In Sardegna il lievito madre è vita.
E i nomi che porta a me sanno proprio di questo, di energia vitale:
su framentu, axedu, sa madrighe, ghimisone, su pane ‘onu, su prementu sardu.
Farsi prestare dalla pasta madre i suoi poteri significa essere disposti ad accudirla ma non sempre a capirla, a stare in bilico tra la magia e la chimica, a continuare a tessere un legame con gli antenati che l’hanno tramandata e con essa le loro storie.
Di antenati e paste madri longeve se n’è occupato anche il microbiologo sassarese Giovanni Antonio Farris che proprio a Sassari ha promosso l’Accademia del lievito madre, composta da una quindicina di addetti ai lavori e ricercatori che scovano negli angoli meno battuti della Sardegna gli impasti più antichi (alcuni di questi hanno un percorso di oltre 120 anni).
Nella Collezione microbica del dipartimento di Agraria dell’università di Sassari è incluso il settore delle Paste acide della Sardegna: qui vengono conservati campioni provenienti da tutta l’isola e tramadati di generazione in generazione da oltre un secolo.
L’Accademia promuove anche la carta dei pani da lievito madre, sulla falsariga della carta dei vini.
Leggere questa cosa mi ha fatto sognare ad occhi aperti di poterla trovare e sfogliare in ogni ristorante un giorno.
Quanto sarebbe bello poter scegliere di mangiare uno o più pani selezionandoli da una lunga lista di sapori, lavorazioni e fermentazioni diverse?
E immaginarseli impastati da mani di donne insieme a mani di janas?
Io continuo a sognare che si avveri.
[fonti presenti nel testo: Giovanni Fancello, esperto e docente di storia della gastronomia sarda]
